Istanze di liberazione

Anzitutto, noto con piacere come questo dibattito stia coinvolgendo più personalità; soltanto il reale confronto può portare a dei progressi nell’elaborazione di nuove strategie, si spera più efficaci.

Per entrare direttamente nel merito, vorrei ribadire ciò che ho già scritto nei precedenti articoli, ossia che l’apertura dell’antispecismo verso tutte le altre istanze di liberazione, apertura che potremmo considerare, una volta tratte tutte le logiche conseguenze, ontologicamente legata all’idea di un’opposizione allo specismo, è reale, per adesso e nella maggior parte dei casi, soltanto in teoria. Ha perfettamente ragione Fragrano quando afferma che, malgrado la sua giovane età, l’antispecismo ha comunque prodotto una quantità ingente di pubblicazioni, seminari, approfondimenti e quant’altro, per di più di elevata qualità, come, a mio giudizio, la più recente impostazione queer. Eppure, osservando questa stessa situazione da un altro punto di vista, si può benissimo dire che, proprio nonostante questo grande e lodevole impegno teorico, l’antispecismo non è ancora comunque riuscito a elaborare solidi approcci trasversali, inclusivi e includenti in fatto di liberazione totale, come la chiamerebbe Steven Best. Questo, ovviamente, al di là delle legittime dichiarazioni di affinità teorica con le altre battaglie di liberazione.

Gli esempi che Fragrano porta a sostegno della tesi secondo cui l’antispecismo – inteso come movimento o, meglio, movimenti, non come sistema organico di pensiero – sia, in realtà, sempre alla ricerca di legami con altri nuovi interlocutori antagonisti, rivela proprio che, al di là dell’impegno nella campagna NOTAV e della partecipazione al corteo del 25 Aprile – partecipazione, dopotutto, quasi esclusivamente simbolica, la cui utilità in fatto di costruzione di un fronte unitario da opporre all’oppressione è minima – il tentativo intersezionale ha vestito sin qui, nella gran parte dei casi, i panni di semplici buone intenzioni, assai raramente quelli di una pratica comune sul terreno della lotta. È necessario capire come teoria e prassi non siano momenti cronologicamente distinti ma ininterrottamente compenetrantisi; è vero che la pratica prende forma dalla teoria ma è anche vero che la teoria si sviluppa, modella, evolve anche grazie ai contributi e agli errori derivanti dalla praxis. È quindi da invalidare, credo, la tesi per cui l’immobilismo antispecista su un versante intersezionale sia attribuibile esclusivamente al “momento teorico”, come se il fatto di essere nel pieno di un’elaborazione teorica precludesse la possibilità di un’azione pratica e di usufruire dei benefici derivanti, appunto, da essa.

È vero che, ad oggi, quasi tutte le forme di antagonismo soffrono di un rallentamento, di un indebolimento generato da una precarietà indotta dall’esterno sulle possibilità di riproduzione della vita quotidiana (non è il caso, ad esempio, delle soggettività che compongono “Non una di meno”, che ha appena pubblicato, dopo numerose assemblee, un manifesto programmatico che necessariamente lega la violenza maschile contro i soggetti femminili e LGBT*QIA+ al dominio sulla natura e all’antropocentrismo, alla precarietà sul luogo di lavoro e all’impostazione medica dominante, ecc…)[1]) ma è anche vero, dopotutto, che l’antispecismo, ponendosi potenzialmente come raccordo tra tutte le lotte di liberazione ed infondendo una spinta decisiva nella trattazione delle conseguenze derivanti da un’impalcatura di potere che va oltre i secoli e le società, accoglie su di sé una responsabilità storica che impone un cambio di marcia, una forzatura.

Proprio per questo, e vengo al punto della questione, credo sia un esercizio sterile e, per alcuni versi, dannoso, quello di ragionare soltanto in funzione di un colpevole mancato riconoscimento della legittimità della lotta antispecista da parte di molte delle altre frange di antagonismo. Detto questo, non si sta certo ignorando l’enorme potenza dei dispositivi atti alla riproduzione di una società fortemente antropocentrica, dispositivi sicuramente determinanti nella possibilità o impossibilità che l’idea antispecista ha di colpire nel segno. Ma se è vero questo, se è vero che l’insieme dei dispositivi discorsivi, non discorsivi e performativi ha una pesantissima influenza nel processo di assimilazione e riproduzione di un’impalcatura ideologica che pone l’umano al centro di ogni cosa, è anche vero che l’antispecismo, che cerca e rivendica fortemente il riconoscimento, pur essendo a conoscenza dell’esistenza e della forza di questi dispositivi, non è ancora riuscito a elaborare strategie efficaci al fine di contrastarli. In sostanza: la responsabilità del riconoscimento o del non riconoscimento di un’istanza come quella antispecista non può ricadere, in questo caso, soltanto su chi deve riconoscere ma anche su chi rivendica e pretende il riconoscimento.

Diventa centrale, a tal proposito, la questione del linguaggio, inteso sia come utilizzo inclusivo e includente della grammatica, sia come “forma” della protesta e, quindi, come modo di interfacciarsi con coloro da cui ci si vuole far riconoscere.

Per quanto riguarda il linguaggio come grammatica finalmente includente, va ammesso che dei tentativi sono stati fatti e continuano ad esser portati avanti con discreto successo, sulla scia delle riflessioni linguistiche portate alla ribalta soprattutto nell’ambito dei gender studies.

A proposito del linguaggio come “forma” della protesta, invece, come non parlare dei nomi spesso dati a eventi che hanno l’obbiettivo di trattare la questione dei diritti degli altri animali, nomi quali “festa”, “festival” e affini, tutte denominazioni che allontanano dall’immaginario comune l’orrore che l’antispecismo si propone di mostrare e combattere e che, quindi, spingono a far sottovalutare l’importanza della battaglia? Come non notare, nel corso delle azioni in difesa dei diritti degli altri animali, un’impronta ancora marcatamente morale e moralistica risalente al legame con le forme storiche attraverso cui l’antispecismo è entrato nella riflessione collettiva e, soprattutto, accademica? Non è raro imbattersi in proclami che rivendicano, ad esempio, il superiore altruismo delle battaglie in difesa dei diritti degli altri animali proprio in quanto difesa dei diritti di individui appartenenti a specie differenti dalla nostra. Al di là dell’ignorare, in questo tipo di rivendicazioni, la problematicità del concetto di specie, centro vuoto attorno al quale si strutturano anche questi proclami, concetto che Filippi, ad esempio, ha iniziato a portare sotto le lenti della decostruzione;[2] al di là dell’ignorare le importanti riflessioni portate a sostegno dell’idea di un altruismo come altra faccia della medaglia dell’egoismo, riflessioni che vedono soprattutto Stirner come riferimento;[3] al di là di questo, un simile tipo di proclami non fa altro che conferire maggiore legittimità a una lotta rispetto alle altre, puntando implicitamente il dito contro queste e, conseguentemente, delegittimandole. Non che siano queste le intenzioni alla base di un certo tipo di proclami ma il messaggio che ne esce riflette ancora, ad occhi esterni all’antispecismo, un moralismo di cui, veramente, si può cominciare a fare a meno.

La gerarchizzazione, in base a un criterio di “importanza”, delle lotte di liberazione dei corpi e delle soggettività, è un meccanismo che potrebbe benissimo essere utilizzato anche all’interno del variegato mondo delle azioni in difesa dei diritti degli altri animali. Eppure, credo che a nessun antispecista verrebbe in mente di porre in cima a una scala di valori la lotta per la liberazione degli animali allevati per scopi alimentari rispetto a quella per la liberazione di quelli allevati a scopi ludici o di “ricerca” scientifica. Laddove esiste un corpo che soffre, qualunque sia la sua condizione di reclusione o repressione, qualunque sia il fine per cui è recluso, represso o sfruttato, la battaglia per la sua liberazione è sempre legittima.

Il primo passo lungo la strada dell’elaborazione di una pratica finalmente comune e intersezionale di liberazione, quindi, pone al centro la riflessione sulle modalità comunicative attraverso cui rendere più chiara la comunanza nel dolore di tutti i corpi sottoposti a violenza, repressione, sfruttamento e reclusione. A tale scopo, propongo la costituzione di una piattaforma collettiva che attraverso incontri, dibattiti e discussioni, si ponga come fine l’elaborazione di una serie di punti consensuali da cui partire per riuscire a intersecare efficacemente l’istanza antispecista con le altre e per delineare coerentemente un movimento epurato, una volta per tutte, dalle derive destrorse a cui l’animalismo classico porge continuamente il fianco. È necessario che una simile piattaforma adotti metodologie volte a un dibattito realmente democratico, che non strizzi l’occhio a modalità che puntino alla maggioranza e non all’intero e che persegua, fin dove possibile, la ricerca del consenso, che non trascuri le posizioni individuali ma neanche che le accetti acriticamente, portandole all’interno di un’elaborazione collettiva, infinitamente più ricca e fertile; ciò soprattutto con lo scopo di arginare inutili protagonismi di cui si è già trattato negli articoli precedenti di questo dibattito.

Danilo Gatto

NOTE

[1]  È possibile scaricare gratuitamente il “Piano femminista contro la violenza maschile sulle donne e la violenza di genere” dal seguente link: https://drive.google.com/file/d/1r_YsRopDAqxCCvyKd4icBqbMhHVNEcNI/view .

[2] FILIPPI, Massimo, L’invenzione della specie, Verona, Ombre corte, 2016.

[3] STIRNER, Max, L’unico e la sua proprietà, Milano, Adelphi, 2011.

Related posts